Da tempo mi diletto a scrivere racconti e haiku. Se ne trovano un po' su un altro mio blog (http://ilgabo.blogspot.com). Spesso le esperienze di musicoterapia diventano argomenti e pretesti narrativi. Il racconto aiuta anche a svelare un'attività che spesso ai più appare quanto meno atipica, se non astratta e inconsistente. Quando racconto del massaggio al pianoforte a conoscenti, la prima reazione è il sorriso. Pubblico qui la narrazione verosimile del mio incontro con Zia May (nome di fantasia), sperando che disveli un poco di mistero. Si rivela essere anche una riflessione sulle aspettative del terapeuta nell'incontro col paziente.
Quando qualcuno mi chiede di come funziona il massaggio sonoro al pianoforte, di solito gli racconto di zia May.
Quando qualcuno mi chiede di come funziona il massaggio sonoro al pianoforte, di solito gli racconto di zia May.
Oggi piove, l’umidità riempie ossa e articolazioni. Ogni giorno di pioggia provo a immaginare la sofferenza di zia May. Nella sua vita da ultra ottantenne, la vecchia e curva zia di Peter si alza la mattina tirandosi con delle corde sospese al di sopra della testata del letto. Si mette a sedere tenendo gli occhi chiusi, ringraziando il signore per un nuovo giorno e maledicendolo per il dolore. Nel tempo, nei più di quindici anni accompagnati da tale sofferenza, zia May ha cambiato espressione del viso e percezione delle cose.
Da giovane era una persona amorevole e cocciuta. Rimasta cocciuta, si è ritrovata con un corpo e un carattere nodoso e curvo come il suo corpo. La compagnia di altre persone si è fatta via via più rara, sia perché le è sempre più difficile uscire di casa, sia perché è sopravvissuta ad amici di vecchia data ormai scomparsi. Peter è finalmente riuscito a costruirsi una vita sua, in un’altra città. Telefona spesso a questa zia che è come una madre, ma raramente riesce a venirla a trovare. La fortuna di Peter è che, malgrado l’età, i dolori e la rabbia, zia May è autonoma e lucida, perfettamente lucida.
Un giorno ero fuori casa, accompagnavo Gabo in uno dei suoi giri di esplorazione, tra rincorse ai gatti e grida di cuccioli di rondine, quando sento zia May che lo chiama. Innamorata dei bimbi come ogni anziano, mostrava una particolare predilezione per mio figlio. A un anno e mezzo Gabo era biondissimo, solare, socievole e curioso. Credo che a zia May piacesse soprattutto per la sua curiosità, per gli occhi svegli con i quali osservava e archiviava nella sua testa. Era un periodo in cui raramente si proteggeva dagli altri, quella strana fase della vita in cui si saluta chiunque si incontri e si ricerca nell’altro ogni forma di sollecitazione.
Parlammo del più e del meno; Gabo osservava eccitato e spaventato un camion pieno di terra mentre faceva manovra per svuotare il carico alla fine della strada. Le raccontai della mia attività di musicoterapia con la stupida modestia e timidezza che mi caratterizza in quei casi. Avevo notato la curva della sua schiena e il suo modo lento e faticoso di procedere. Non avevo riflettuto sulla gravità della sua situazione né sulla ferocia del suo dolore. Quando le raccontai dell’efficacia del massaggio sonoro al pianoforte vidi il suo volto aprirsi e illuminarsi e, con mia grande sorpresa, fissammo un incontro.
Zia May mi dava l’impressione di una donna in abbandono, in discesa. Non che fosse trasandata o depressa, ma rassegnata con rabbia. Aveva subito decine di operazioni negli ultimi quindici anni, soffriva di osteoporosi, psoriasi alle gambe, ernia al disco. E poi c’era quella scogliosi tremenda che la spezzava quasi in due. Ne compresi l’entità la prima volta che si distese sul pianoforte.La ricevetti dall’ingresso secondario di casa mia, che permette di non salire le scale e dà direttamente alla mia taverna adibita a studio. Arrivò camminando lentamente, faticosamente. Ogni passo le costava un grande sforzo per colpa del dolore. Mi chiedevo come riuscisse a occuparsi delle pulizie giornaliere della casa, dei pasti e delle dieci galline rimaste nel pollaio, ultimi animali sopravvissuti a un’età contadina ormai necessariamente messa da parte. Le uova che producevano erano poche, grandi e gustose. Zia May amava regalarle a Gabo quando ci incontravamo per caso nelle nostre passeggiate.
Entrata nello studio, le mostrai il pianoforte e le raccontai cosa avremmo fatto. Lei avrebbe dovuto salire sopra alla cassa armonica del pianoforte per mezzo di una scaletta, distendersi sopra e ascoltare in silenzio una mia improvvisazione musicale della durata di circa quarantacinque minuti. Terminata la breve descrizione mi guardò con occhi sgranati e scettici Non credo di riuscire a salire lì sopra! dicevano. Con il mio aiuto, con calma e una lentezza piena di preoccupazione, ci riuscì. Era solo la parte più facile. La difficoltà maggiore fu distenderla supina lungo tutta la lunghezza della coda del pianoforte, tra una fitta di dolore e l’altra, in modo che trovasse una posizione non scomoda e che le permettesse un parziale rilassamento. Appoggiata la schiena, la testa rimase sollevata dalla base di appoggio di almeno sessanta centimetri. La curva della sua schiena era tale che soltanto con l’aiuto di sei cuscini belli gonfi le fu possibile appoggiare la testa e rilassare parzialmente il collo.
Ero preoccupato. Una donna di più di ottant’anni, che ha affrontato ogni genere di operazione, che ha contatti quasi quotidiani coi medici, che utilizza regolarmente antidolorifici, insomma, una persona così radicata nei meccanismi della medicina tradizionale, avrebbe accolto i benefici di questa strana terapia? Avrebbe quantomeno ascoltato alcuni minimi segnali di benessere? E soprattutto, di fronte a una situazione così compromessa, quali reali effetti avrebbe prodotto il massaggio sonoro? Avevo le mie convinzioni e le mie conoscenze, avevo la mia esperienza, ma non avevo ancora avuto modo di sperimentare la tecnica con una situazione così difficile.Le posizionai altri tre cuscini sotto alle ginocchia, in modo da distenderle il più possibile la schiena e migliorando l’equilibrio tra parte superiore e posteriore del corpo. Mi sedetti sullo sgabello, in procinto di iniziare a suonare.
Continuavo a chiederle come si sentiva in quella posizione Riesce a resistere? Non è troppo scomoda? Mi rispondeva di si, ma la vedevo tesa e preoccupata. Immaginavo i suoi pensieri in testa Ma cosa sto facendo qui? Come ho fatto a fidarmi di questo matto?
Le dissi di mettersi in ascolto. Del silenzio dello studio, del canto degli uccelli proveniente dalla finestra leggermente aperta, del nostro respiro. La osservai attentamente, secca e curva. Mi concentrai sul suo respiro, ancora accerchiato da timori, ne interpretai le fluttuazioni ritmiche, la dimensione, le contrazioni, le regolarità e le interruzioni.
Ogni percorso sonoro, nell’improvvisazione terapeutica, nasce dal respiro. È la base sicura dalla quale avviare l’esperienza, dalla quale la musica può prendere forza e acquistare un senso. Col procedere dell’improvvisazione, ritmo, armonia e melodia si sarebbero poi allontanate da quell’ancora, avrebbero reinterpretato il modello tonico e posturale per restituire al paziente altre combinazioni, nuove possibilità.
Nel silenzio, che si apriva come un orizzonte tra quelle quattro mura, dando spazio a una conoscenza in divenire, a un’esperienza anomala e imprevista per entrambi, avvicinai le mani ai tasti del pianoforte. Aspettavo la giusta espirazione di zia May per dare forma al suono. Quell’attimo prima dell’inizio è prezioso. La mente e il corpo si ricompongono in perfetta unità, nel momento in cui si attende l’intuizione giusta per un’apertura ritmica e armonica efficace. La memoria meccanica del movimento che le dita hanno fatto propria in anni di esercizio, l’ascolto delle proprio emozioni in quel momento pieno di anticipazione, l’acuta consapevolezza della complessità dell’altro, la curiosità che guida l’esplorazione sonora si presentano assieme al musicoterapeuta, senza barriere.
Fu in quel preciso momento che zia May ruppe il silenzio La devo ringraziare, signor Guglielmo. Mi deve ringraziare? pensai. Non ho ancora iniziato e mi ringrazia? Provai un’intensa sensazione di irritazione, come di fronte a qualcuno che rompe un tuo oggetto prezioso. Ascoltai la sua voce acuta e monotona che proseguiva a parlare La devo ringraziare per avermi invitato. Sa, non è facile trovare qualcuno che si prenda cura di te, oggi. Qui i vicini sono tutti delle malelingue, soprattutto quelli cresciuti nel paese. Quindi me escluso, pensai. Sa, io abito qui da sempre, ma i miei parenti e i miei amici sono tutti morti. Mi è rimasto solo Peter, che è così lontano. E poi il mio amico Mario.Non conosco nessun Mario, chi sarà? Le rispondevo con brevi assensi di gola e qualche si, lasciando che il fiume delle sue parole fuoriuscisse.
Mario ha la mia età. Prima di sposarmi io e lui uscimmo insieme qualche volta. Andavamo a ballare. Ci vogliamo bene da sempre. Ora siamo innamorati. Lui è in ospedale, non sta bene. Ogni settimana cerco di andarlo a trovare. Per me è sempre più faticoso, ma non posso lasciarlo solo.
Avevo sempre pensato che dopo una certa età le emozioni assumessero colori e intensità diverse. Zia May mi raccontava la sua vita con il bisogno di attenzione propria di un bambino. Vedevo nel movimento ritmico delle sue labbra, in quelle brevi apnee tra una frase e l’altra, nelle sue mani trattenute e chiuse a pugno, un desiderio incapace di esprimersi. Come se il corpo ormai stanco e spezzato di zia May non fosse in grado di manifestare quello che sentiva nel suo profondo. Anche la rabbia per i vicini, che scoprii dopo essere condivisa al rovescio dagli altri abitanti, mi sorprese per la sua forza. Voleva amare, odiare, desiderare, parlare come se avesse cinquant’anni di meno, ma non le era possibile. Sentivo la sua frustrazione. Non capivo che la vera ragione del nostro primo incontro non era la ricerca di un sollievo per il mal di schiena, ma per il suo mal di vivere. Sorpreso e impreparato, prima di condurla a un nuovo silenzio, riuscii a risponderle solo con finta partecipazione e risposte neutre e distaccate.
Il silenzio le costava fatica. Le parole erano una necessità.
Sono stata invitata a Roma da don Antonio. È un mio parente alla lontana. Va dal papa per diventare vescovo. Mi ha comprato anche i biglietti del viaggio. Ma non me la sento di andare. I dolori sono troppo forti. Sa, alla mia età è difficile alzarsi dal letto. Andare fino a Roma non me la sento proprio. Gli ho detto di recitare una benedizione per me e la mia povera schiena. Lo guarderò alla televisione.
È un peccato, le dissi a denti stretti. Mi era difficile ammetterlo, ma mentre parlava la mia irritazione continuava a salire. Mi servì concentrazione e distacco dalle mie emozioni per comprendere la vera necessità di zia May. Faticai a capire, concentrato com’ero sul compito che mi aspettava, ma tutto ciò che desiderava era parlare; non cercava sollievo per la schiena. Che sollievo può dare un pianoforte? Cercava un orecchio per le sue parole e le sue emozioni.
Dovetti intrufolarmi tra una breve pausa e l’altra per iniziare a suonare. A un certo punto, sentì necessario per entrambi iniziare il percorso sonoro. Parlare le avrebbe dato solo l’illusione del sollievo. Volevo sperimentare. Volevo spostare la sua attenzione dalla mente al corpo.
Suonavo, le dita si muovevano prima legate poi più fluide. Da quel momento, zia May tacque, immobile, in ascolto, senza mandare segnali evidenti che mi permettessero di comprendere come stesse vivendo quell’esperienza. Il respiro cambiò solo negli ultimi dieci minuti di improvvisazione. Si fece più regolare, lento e profondo. Il suo volto, gli occhi sempre aperti, non comunicava alcuna sensazione. Per tutto il tempo rimase come sospesa.
Terminai nel modo più rassicurante, riprendendo il ritmo del suo respiro, appoggiando lenti e prolungati arpeggi di tonica. Infilavo una nona e una quarta nell’armonia in modo da aumentare la sensazione di sospensione, prima di risolvere. Tornammo al silenzio.…Non so cosa dire, signor Guglielmo, in questo momento sto bene, non sento dolori. Zia May era ancora distesa sulla cassa armonica, i sei cuscini sotto alla testa, le braccia distese lungo il corpo.
Non pensavo di riuscire a stare così a lungo in questa posizione, disse mentre il volto le si distendeva in un lieve sorriso. Mi rasserenai. Le dissi che la verifica importante sarebbe stata alzarsi e camminare.
Le operazioni per la discesa furono lente e macchinose. Volevo evitarle strappi dolorosi, volevo che rimanesse il più a lungo possibile in quello stato di rilassamento profondo. La misi a sedere sul piano, i piedi appoggiati sulla scaletta. Scese, aggrappandosi a me come a un albero, un passo alla volta, il piede destro in avanti. In ogni momento, ripeteva Mah, non so cosa dire, mi sento meglio. Più che scettica appariva autenticamente sorpresa. Fece alcuni passi per lo studio, muovendosi con maggiore agilità e con una leggerezza che stentavo a riconoscerle.
Ci salutammo con poche parole. Anche la sua voglia di raccontare sembrava in parte risolta, in quel momento.
Ero sereno.
Ci rivedemmo diverse volte dopo quell’incontro, finché non arrivò l’inverno e la brutta stagione non rese difficile per lei venire a casa mia a piedi. Verificammo che il trattamento aveva un effetto della durata di tre giorni. In quei tre giorni il suo dolore era sensibilmente minore, riusciva a riposare serenamente la notte, a muoversi con più stabilità e leggerezza.
Non ci fu mai in lei l’attesa di un cambiamento duraturo. Né la ricerca di un miracolo impossibile. Quanto la certezza di una tregua, come una tregua alle sue ansie fu continuare a chiacchierare, tra un’improvvisazione e l’altra.
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